Suonare News 0 1997
 

La chitarra
di Filippo Michelangeli

Il panorama concertistico della chitarra del Novecento ha un protagonista assoluto: Andrés Segovia (1893-1987). Il grande maestro spagnolo ha avuto una carriera eccezionalmente lunga (è morto a 94 anni suonando sino a pochi giorni prima) e ha contribuito in modo determinante alla diffusione dello strumento in tutto il mondo. Con Segovia la chitarra entra per la prima volta nel salotto buono della musica con una programmazione regolare nei cartelloni concertistici più prestigiosi. Gli appassionati delle sei corde gli attribuiscono il grande merito di aver rivelato al pubblico la natura espressiva dello strumento, valorizzandone l’inconfondibile suono e rinunciando ai facili effetti dell’utilizzo di un repertorio popolare o dell’amplificazione. Ma oltre ai tanti meriti artistici, non va dimenticato l’instancabile opera di promozione della chitarra che Segovia ha compiuto per tutta la vita. Lo testimoniano innumerevoli incisioni discografiche, film, interviste, corsi di perfezionamento in tutto il mondo, revisioni, trascrizioni e la continua collaborazione con i compositori al fine di creare repertorio originale. Parlare quindi di Andrés Segovia soltanto come interprete è davvero riduttivo. Il maestro di Linhares è stato una sorta di padre spirituale della chitarra, un punto di riferimento senza il quale probabilmente l’affermazione dello strumento, almeno nelle dimensioni che oggi conosciamo, non sarebbe mai avvenuta. La sua personalità è stata così forte da avere addirittura inibito per molti anni la formazioni di degni continuatori. E, come accade ai protagonisti dell’umanità, la sua prospettiva poetica e ha dato origine a un aggettivo: segoviano. Ma un altro artista spagnolo ha occupato un ruolo di primo piano nel nostro secolo: Narciso Yepes (1927-1997). Nato a Madrid, Yepes si è imposto su un particolare strumento a 10 corde che, in verità, dopo di lui non ha trovato molti seguaci. Dotato di una tecnica eccezionale, soprattutto della mano destra, ha lasciato un congruo numero di registrazioni discografiche. E se oggi il suo chitarrismo appare spesso datato e contraddittorio, con interpretazioni che non hanno mai messo d’accordo tutta la critica, Yepes ha sempre avuto dalla sua un grande successo di pubblico. A partire dalla popolarità che gli derivò dopo aver inciso la celebre romanza Giochi proibiti, tratta dalla colonna sonora dell’omonimo film di René Clement, che è stata per anni il pezzo simbolo della chitarra cosiddetta ‘classica’. Una morte prematura, a soli 43 anni, e una carriera quasi esclusivamente dedicata al duo con il marito Alexander Lagoya, ha impedito a Ida Presti (1924-1967) di imporsi come la più sensibile interprete del Ventesimo secolo. Enfante prodige – a soli 11 anni si esibiva in impegnativi concerti solistici – la Presti è rimasta, a detta dei pochi privilegiati che hanno avuto la fortuna di ascoltarla, assolutamente insuperata. I giovani possono consolarsi ascoltandola nell’unico disco giunto sino ai nostri giorni, edito dall’etichetta inglese Pearl, che restituisce ai posteri la grandezza dell’ artista. Durante gli anni in cui Andrés Segovia teneva i leggendari corsi all’Accademia Chigiana di Siena si è formata una nutrita schiera di grandi solisti. Come Alirio Diaz, 74 anni, venezuelano, allievo prediletto del maestro (e assistente durante le lezioni), interprete meraviglioso soprattutto del repertorio sudamericano. Con Diaz la chitarra ha trovato un musicista in grado di conquistare il vasto pubblico, grazie a un invidiabile potenza sonora e a un travolgente senso ritmico. Anche nelle sue ultime esibizioni, un po’ appesantite dall’età, è rimasta intatta l’inconfondibile ‘cavata’ e la grazia musicale. I due fuoriclasse inglesi, Julian Bream, 64 anni e John Williams, 56, (quest’ultimo nato in Australia ma cittadino britannico), hanno dominato il dopoguerra. Bream, all’inizio attivo anche come liutista, è stato il primo a presentare una visione realmente alternativa all’estetica segoviana. Nonostante una tecnica strumentale poco precisa e apparentemente inadatta ad affrontare la scena internazionale, Julian Bream si è imposto grazie a una musicalità traboccante e a una ricchezza di idee che lasciava stupefatti. In particolare, al contrario di Segovia che è rimasto per tutta la vita ancorato a un repertorio classico, Bream ha saputo avvicinarsi alla musica contemporanea guidato da un’ispirazione e una curiosità che ne hanno fatto un riferimento per tutti coloro che sono venuti dopo di lui. John Williams, invece, è dotato di un controllo strumentale impensabile soprattutto all’inizio degli anni Sessanta, quando ha debuttato. Ha inciso praticamente tutto il repertorio per chitarra sola e con orchestra e ogni sua nuova registrazione ne conferma l’elevato standard professionale. La sua tecnica è stata, e continua a essere, un o splendido esempio dello sviluppo della scuola chitarristica mondiale. Tuttavia, negli anni, non ha mai trovato una vera coerenza espressiva e ha più volte proposto, lasciando delusi i suoi innumerevoli fans, inconcludenti contaminazioni con la musica pop, esibendosi a volte con chitarre elettrificate. Negli anni Novanta, inspiegabilmente, ha diradato anche gli impegni concertistici. C’è, inoltre, la generazione dei quarantenni. Come Pepe Romero, 43 anni, spagnolo ma residente negli Stati Uniti, appartenente a una famiglia di chitarristi; il cubano Manuel Barrueco, 44 anni, interprete solido e professionale, considerato da molti l’erede naturale di John Williams; l’americano Eliot Fisk, 43 anni, partito all’inizio come virtuoso – è stato definito “il Paganini della chitarra” – ha conquistato nella maturità una personalità più poetica ed espressiva. Tra i dieci grandi del Novecento, cioè coloro che più di tutti hanno segnato un solco nella storia della strumento, vorrei aggiungere il 36 enne tedesco Tilman Hoppstock. La sua attività, fortemente penalizzata da una malattia che lo tiene lontano dai palcoscenici, si è espressa soprattutto in alcuni CD che, per la perfezione strumentale e la profondità musicale, lo collocano come il chitarrista che ha anticipato i valori del terzo millennio. Ma altri maestri sono attivi da anni sulla scena mondiale. Da ammirare l’inconfondibile suono adamantino dello scozzese David Russell (44 anni), la forza espressiva dell’argentino Roberto Aussell (43), il virtuosismo brillante degli uruguajani Eduardo Fernandez (45) e Alvaro Pierri (44), le acrobazie pirotecniche del giapponese Kazuito Yamashita (36) che, dopo una memorabile versione per chitarra sola del monumentale ciclo dei Quadri in un’esposizione di Mussorgski, sembra essere rimasto impigliato nel suo abbagliante virtuosismo e, infine, la poesia raccolta e commossa dello spagnolo Alberto Ponce, 62 anni. La rinascita della scuola italiana si deve al livornese Oscar Ghiglia, 59 anni. Cresciuto alla scuola segoviana – oggi ne è erede ai corsi all’Accademia Chigiana – ha proposto una lettura originale e autorevole dei capolavori di Bach e di opere contemporanee. Oltre a Ghiglia va segnalata la coerenza stilistica di Stefano Grondona (39 anni), la brillantezza di Marco De Santi (40) e Luigi Biscaldi (35), l’estro spavaldo di Emanuele Segre (32), l’impegno concertistico e discografico di Flavio Cucchi (43) e Claudio Marcotulli (39). Fuori da qualsiasi schema il torinese Maurizio Colonna (40) che, grazie alla sua esuberanza strumentale, ha saputo portare la chitarra negli stadi e in televisione. Un commento a parte meritano i chitarristi-compositori, come Dusan Bogdanovic (42), Leo Brouwer (59), Roland Dyens (42) e Angelo Gilardino (56), il cui lato creativo ha finito per prevalere sulla militanza concertistica dei primi anni. Non si può concludere questa, seppur incompleta panoramica del Novecento chitarristico, dimenticando l’asso flamenco Paco De Lucia. Spagnolo, 50 anni, De Lucia, nonostante le origini gitane – giura di non saper leggere nemmeno una nota sul pentagramma – , ha ottenuto un grande consenso anche nel mondo accademico che gli riconosce una straordinaria verve strumentale e un’ispirazione autentica e libera da qualsiasi condizionamento. BOX: Le giovani promesse Basta scorrere gli albi d’oro dei concorsi internazionali per rendersi conto della costante e qualificata presenza di giovani chitarristi italiani. Un plauso, quindi, anche ai nostri didatti che hanno saputo impostare un lavoro che, nel tempo, ha dato lusinghieri risultati. La scuola chitarristica italiana si caratterizza soprattutto per lo scrupolo filologico e il rigore stilistico e, sia detto senza campanilismo, offre un livello medio superiore agli altri paesi del mondo. Merito anche dei corsi segoviani dell’Accademia Chigiana di Siena che, negli anni Cinquanta, hanno contribuito a imporre uno standard qualitativo di prim’ordine. Tra i tanti “under 30”, pluripremiati in rassegne internazionali, vorrei ricordare Luigi Attademo, Aniello Desiderio, Andrea Dieci, Sara Gianfelici, Lorenzo Micheli, Filomena Moretti, Franco Platino, Christian Saggese e Giulio Tampalini. Nonostante la giovane età sono tutti seri professionisti con una solida preparazione tecnica e musicale. Speriamo che il nostro paese, di solito avaro nell’offrire opportunità ai propri artisti, sappia valorizzare il loro talento e aiutarli ad imporsi sulla scena mondiale.

 

 

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