Suonare News 0 1998
 

Devo tutto a Ruggero Chiesa
di Filippo Michelangeli

Chissà perchè tra i protagonisti della chitarra le donne occupano un ruolo di secondo piano? Fatta salva la leggendaria Ida Presti (che si esibiva soprattutto in duo con il marito Alexandre Lagoya), il mondo delle sei corde non ha mai avuto virtuose del gentil sesso. Per non parlare del flamenco: in Andalucia una donna alle prese con tremoli e rasgueadi viene considerato una bestemmia. Così il successo di Filomena Moretti, 24 anni, sassarese, rappresenta una piacevole eccezione. Diplomata con dieci e lode a soli 18 anni sotto la guida di Roberto Masala, Filomena si impone subito in importanti concorsi italiani: Mondovì, Pujol, Stresa, Sor, Alessandria, Aram. La incontro a Milano dove è appena uscito il suo secondo CD per la Stradivarius. Che studi hai fatto oltre la chitarra? Il liceo classico e adesso sto studiando composizione. Come è nata la passione per la musica? Quando avevo sei anni mi hanno regalato una chitarra per Natale. Ci ho giocato per un po’ e a dieci anni ho cominciato a appassionarmi. E così mi sono iscritta al Conservatorio di Sassari. Il piano di studi della chitarra dura dieci anni. C’è tempo per avere dubbi, incertezze, paure. Come li hai superati? Il momento più difficile è stato in quinta ginnasio, a quindici anni, quando dovevo fare l’esame di Storia della musica, Armonia e ottavo nella stessa sessione. Mi sono sentita mancare le forze, ma ho sempre avuto un amore straordinario per lo strumento. Prima di diplomarti hai cominciato a frequentare corsi di perfezionamento. In Italia si discute da anni sulla loro utilità: molti professori di conservatorio li criticano eppure i giovani continuano a frequentarli. Che cosa ti ha spinto a quindici anni a seguire altri maestri? Innanzitutto vivevo a Sassari. La Sardegna è una terra bellissima, ma è un’isola e tutto quello che arriva dall’esterno sembra un mito. Per noi i nomi di Chiesa, Gilardino, Ghiglia erano come quelli di dei in terra. E io volevo vederli da vicino. Una volta fatto il primo corso la cosa più bella è stato vivere in prima persona il confronto con mille realtà differenti. Dei maestri che hai seguito, quale ti è stato più utile? L’incontro fondamentale è stato con Ruggero Chiesa. Avevo quindici anni e mi ha aperto il mondo. Lo conobbi per caso quando venne a salutarmi dopo il mio debutto. La cosa affascinante è che parlava di musica, soprattutto, e poco di chitarra: del significato di un brano, del rapporto con il pubblico. Poi ricordo con affetto David Russell per la grande umanità e anche per il suo modo di suonare, e Alirio Diaz con il quale ho studiato il Concierto de Aranjuez. Ha un’esperienza concertistica straordinaria e un mestiere che non ho mai visto. Peccato che a volte si butti via per niente, studiando poco e, da quel punto di vista, è un disastro, ma è un artista molto generoso, in concerto dà tutto se stesso. Anche Julian Bream mi ha colpito profondamente, è una persona molto tormentata. Di Manuel Barrueco mi ha impressionato il metodo di studio e la precisione. A 24 anni hai già vinto tanti concorsi; pensi di tentarne altri? Non mi sono ancora ritirata, ma mi lascia perplessa l’abitudine di tanti chitarristi che, dopo avere vinto una gara importante, continuano a partecipare a rassegne meno prestigiose. Perché? Per i soldi? La vittoria dovrebbe aiutare a fare carriera, ma ho imparato che non esiste “il” concorso che apre tutte le porte. A questo punto quale ti interesserebbe fare? I più importanti oggi mi sembrano il “Tárrega” di Benicasim, in Spagna, e poi Ginevra e Monaco anche se non so se sarò in grado di affrontarli. Hai anche inciso 2 CD: un recital con la Phoenix e uno con la Stradivarius. Il primo è stato il mio debutto discografico, una registrazione fatta un po’ in fretta. Nel secondo, con la Stradivarius, ho inciso le Sonate op. 25, 22, 15a e il Morceau de concert op. 54 di Fernando Sor. È un omaggio a Chiesa; sono stati gli ultimi pezzi che ho studiato con lui, quelli con cui ci siamo lasciati. Incidere è stato un viaggio all’interno sia della musica per chitarra sia della chitarra stessa perché davanti a un microfono tutto risulta amplificato. C’è un’enorme differenza fra studio d’incisione e sala da concerto. In un concerto suoni dall’inizio alla fine, hai un pubblico davanti con il quale instauri un rapporto di magia. Nel disco c’è la possibilità di correggere, di tornare indietro: cerchi la precisione assoluta. Non si potrebbero unire i due mondi con un disco live? L’ho chiesto tante volte, ma le case discografiche tirano indietro, perché crea molti problemi tecnici. Lo accettano soltanto dai grandi artisti. Su che chitarra suoni? Una Andrea Tacchi con il piano armonico in abete e il fondo e fasce in acero. Sono innamorata della mia chitarra. Quello che uno strumento da concerto deve avere è il volume, anche se i liutai cercano sempre di convincerti che il bel suono sia l’unica cosa che conti. Che cosa farai da grande? Continuerò gli studi di composizione, a giugno devo fare l’esame di quarto anno. In casa, per fortuna, ho dei genitori – entrambi professori di lettere – che mi danno un grande sostegno. Un giorno spero di insegnare in conservatorio e, naturalmente, di continuare a suonare, che per me è la cosa più bella del mondo. La chitarra è sopratutto solista, anche se adesso si stanno affacciando esperienze di multichitarrismo. E il duo? Ti piacerebbe lavorare con un altro musicista? Caspita! Mi piacerebbe molto, anche se credo che sarebbe un rapporto difficile. Come un matrimonio.

 

 

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