Suonare News 0 1999
 

Datemi un pentagramma
di Cecilia Rivers

La carriera del direttore d'orchestra Lorin Maazel, nato in Francia nel 1930, comincia in maniera fulminante a soli undici anni, quando Toscanini lo invita a dirigere la “sua” NBC Symphony Orchestra. In seguito, dopo una laurea in filosofia e matematica e un periodo come violinista nell'orchestra di Pittsburgh, Usa, dove è cresciuto, esordisce in Italia nel '53 e a trent'anni è il primo americano e il più giovane direttore mai invitato a Bayreuth. Nei quarant'anni che seguono dirige tutte le orchestre più importanti del mondo in più di quattromila opere e concerti. E incide più di trecento dischi, raccogliendo innumerevoli onorificenze quali la Legione d'onore francese e la Croce al merito tedesca. È stato direttore musicale della Cleveland Orchestra (1972-82), dell' Orchestre National de France (1988-90), della Pittsburgh Symphony Orchestra (1988-97), e dal 1993 è direttore stabile dell'orchestra della Radio Bavarese. In Italia ha collaborato intensamente con la Scala, per la quale ha diretto dieci nuovi allestimenti. Maazel parla fluentemente inglese, russo, francese e tedesco. Il suo italiano è quasi impeccabile, con un leggero accento francese. Ha tre figli ed è sposato con un’attrice tedesca, Dietlinde Turban. Di recente si dedica sempre più spesso al violino e alla composizione. Vive a Monaco di Baviera, ma ha un legame particolare con Vienna: fu sovrintendente dell'Opera di Stato dal 1982 al 1984, e lavora di frequente con i Wiener Philharmoniker, che gli hanno appena commissionato la composizione di una sinfonia. Con la stessa orchestra ha diretto ben dieci concerti di Capodanno, compreso, sei mesi fa, l'ultimo del millennio, dove ha imbracciato il violino in mezzo ai suoi orchestrali, proprio come Johann Strauss figlio di cui si celebrava il centenario. Parliamo del concerto di Capodanno, che lei ha diretto per la decima volta, un vero record. Come ci si prepara a un'esibizione che sia lei sia l'orchestra potete fare ormai a occhi chiusi? Non è vero che sia così semplice. Tenga presente che la musica di Strauss viene per l'appunto suonata solo una volta all'anno, e che, a parte due o tre classici come il Danubio blu e la Marcia di Radetsky, il repertorio cambia sempre. Ci vogliono delle prove che direttore e orchestra prendono molto seriamente. Il concerto, inoltre, è dal vivo, davanti a un miliardo di persone, che sono abituate alla perfezione delle registrazioni discografiche, e che si aspettano espressioni allegre e festose, unite a un'esecuzione impeccabile, la mattina dopo una nottata di “bagordi”. Io poi cerco sempre di scovare pezzi sconosciuti degli Strauss, per sottolineare la fecondità creativa di questa incredibile famiglia musicale. Ma sono contento quando la gente crede che il concerto venga prodotto senza sforzo, vuol dire che abbiamo fatto bene il nostro lavoro. La sua formazione musicale: ha cominciato giovanissimo ed è stato un bambino prodigio. Toscanini le chiese di dirigere la NBC Symphony Orchestra quando lei aveva solo undici anni. Come ha studiato per arrivare a quel punto e come ha continuato? Cominciai subito come direttore d'orchestra. A cinque anni avevo già messo le mani sul violino e sul pianoforte: non li suonavo bene, però si notava che avevo talento come direttore. Oggi non sarebbe possibile, ma a quell'epoca si mettevano subito i bambini precoci sul palcoscenico, e ciò non mi ha rovinato perché nessuno ha cercato di sfruttarmi. Sono andato a scuola come tutti i ragazzi, e questo mi ha salvato la vita psicologicamente. Nel frattempo studiavo, dirigevo orchestre e mi creavo un repertorio. Con chi ha studiato? Ho studiato direzione con Vladimir Bakaleinikoff da quando avevo sette anni. Lui era anche un grande violista, e mi insegnava il violino allo stesso tempo. Fino ai sedici anni non ero troppo interessato, poi ho cominciato a sentire il bisogno quasi fisico di suonare e cominciai a impegnarmi di più. Con che violino suona adesso? È uno Stradivari che ho da quattro anni, “Artot”, il nome del violinista belga che fu uno dei suoi proprietari. Questo strumento è passato per molte mani, sparendo spesso dalla circolazione senza lasciare traccia. Pare che alla fine fosse in casa di un miliardario texano che lo usava per strimpellarci il Country and Western. Che ricordo ha di Toscanini? Ero piccolino, appena undicenne, e quando Toscanini venne ad ascoltarmi in prova, la mia più grande ambizione era di ottenere il suo autografo. Al termine fu di una cortesia squisita e pieno di parole incoraggianti; eppure, quando tirai fuori penna e blocchetto, Toscanini rifiutò di firmare. Mi lasciò dirigere la sua orchestra, ma niente autografo. Con un inizio così precoce, la sua carriera ha coperto quasi sessant'anni della vita musicale di questo secolo. È vero, è una cosa a cui molti non pensano, ma io sono uno degli ultimi musicisti ad aver conosciuto bene i grandi d'inizio secolo. Rachmaninoff, Bruno Walter, De Sabata, Arthur Rodzinski, Stokowski. Suonai persino in quartetto con il grande violinista Misha Elman. Il primo concerto a cui assistetti nella mia vita, a sei anni, era diretto da Otto Klemperer. Quindi in un certo senso mi considero il punto di collegamento con un passato remoto, più remoto di quanto la mia età possa far pensare. Il mio modo di suonare il violino, per esempio, si rifà alla grande scuola ebreo-russa, lo stile con cui si suonava all'epoca e che non è più in voga. Oggi la moda è più “asettica”, non ci sono più quei grandi vibrati e rubati pieni di emozione. Io mi annoio quando sento suonare così. Ricorda aneddoti divertenti, fra tutti questi grandi che ha incontrato? Una volta ero con Rachmaninov, che non era certo il più bell'uomo del mondo. A un certo punto prese in mano una foto di Stravinski appoggiata sul pianoforte del mio maestro, la guardò con attenzione e disse con aria stupita: «Com'è possibile che un uomo così brutto possa scrivere musica tanto bella?» E a proposito di Stravinski, assistevo a una prova in cui il maestro russo dirigeva un suo lavoro; a me sembrava che nella partitura ci fosse un errore vistoso di composizione, e coll'arroganza dei giovani mi avvicinai e dissi «Lei lo sa che qui c'è un errore?». Risposta di Stravinski: «A me non importa un chiodo». E con quello, mi mise al mio posto. Dal 1982 al 1984 è stato Direttore generale e artistico dell'Opera di Stato di Vienna. Le piaceva l'aspetto amministrativo dell'incarico? Troppo. Dovevo stare attento a non rubare tempo alla mia musica, ma era una sfida che mi appassionava. Si trattava di far funzionare una grande istituzione su una solida base artistica, senza ignorare le costrizioni finanziarie. A differenza degli enti lirici italiani, l'Opera di Stato di Vienna è un teatro “di repertorio”, con l'impegno di montare almeno 230 recite l'anno. Con un ritmo di produzione così massacrante, si rischia di prendere cattive abitudini, come quella di non provare abbastanza con i cantanti. A volte il soprano e il tenore s’incontravano la prima volta dietro le quinte prima della generale, senza sviluppare un vero legame artistico. Impossibile. Io razionalizzai il sistema. Che differenza c'è fra i teatri europei come Vienna e quelli italiani? Quasi tutti i teatri europei sono “di repertorio”, cioè hanno un output molto intenso e regolare che si avvale non solo di nuove produzioni, ma soprattutto di riprese che possono anche restare in cartellone per molti anni. In questo modo il calendario è molto fitto e si possono offrire al pubblico gli allestimenti più popolari sino a soddisfare la domanda. Questo in Italia non esiste. Quali sono i punti di forza e di debolezza dell'Italia? Proprio perché meno vincolato dalle esigenze di un repertorio consolidato, in Italia il direttore stabile ha più importanza e può esercitare di più la propria influenza artistica. Ottima cosa quando si tratta di grandi direttori, ma quei teatri che non sono così fortunati ne soffrono. Un altro pesante svantaggio è il vostro sistema amministrativo. Spero che le cose stiano cambiando, però in genere il vostro governo distribuisce le sovvenzioni all'ultimo momento, mentre ingaggi e programmazioni a livello internazionale vanno fatti con tre-cinque anni d'anticipo: di conseguenza si producono bilanci e preventivi alla cieca. È un tipo di incertezza che non permette di lavorare con serenità e a soffrirne è la musica. È stato detto che proprio questa situazione ha contribuito alla diffidenza dei grandi nomi a lavorare in Italia, con conseguente lievitazione stratosferica dei loro cachet. In genere disapprovo i cachet troppo alti. Quando ero a Vienna fui proprio io a impormi con i cantanti per ridurre le loro pretese. È chiaro che quando lavorano gli artisti di grande fama come Pavarotti o Domingo la gente corre, ma se si spende tutto il budget in quel modo non ne resta più per la normale amministrazione ed è impossibile sopravvivere. E d'altro canto le centinaia di persone che lavorano in una grande organizzazione portano a casa uno stipendio solo grazie al signor Pavarotti o al signor Bizet. Quindi va mantenuto un equilibrio. Io come sovrintendente dicevo al signor Luciano: «Queste sono le condizioni, questo è il cachet, più di così non si può o il teatro non sopravvive». E devo dire che lui e molti altri apprezzavano i miei motivi e non discutevano. E il Maazel direttore d'orchestra è d'accordo con il Maazel sovrintendente? Il critico Norman Lebrecht nel suo libro (Il mito del maestro, 1992, Longanesi, n.d.r.) suggerisce che lei sia uno dei direttori più cari sul mercato. Non ho letto quel libro e non posso commentarlo. Certo, se non ci fossimo noi direttori e musicisti, critici e giornalisti non avrebbero molto materiale di cui scrivere. La carriera di compositore la sta assorbendo. Quando è avvenuta questa svolta? Avevo studiato composizione da ragazzo, ma ho cominciato a dedicarmici seriamente otto anni fa. Come è successo? Rostropovic. Aveva sentito alcuni miei pezzi d'occasione, valzer eccetera, e insisteva che avevo talento, tanto che mi chiese di scrivere per lui. E io: «Neanche per sogno. Ho troppo amore per te e per il violoncello». Invece lui era molto insistente e ogni volta che ci vedevamo mi riempiva di vodka per convincermi. Finalmente scrissi questo pezzo per lui. Lui lo suonò, lo suona ancora e l'ha anche inciso. Poi c'è stato Galway... ...che in un intervista a Suonare due anni fa ne ha parlato con tanto entusiasmo da cantare lunghi brani di entrambi i pezzi scritti per lui (Musica per flauto e Vapours and Capers, n.d.r.). Era impossibile fermarlo. Oltre al recente disco Rca delle Musiche (per violoncello, suonata da Rostropovic, per flauto suonata da Galway e per violino da Maazel stesso, n.d.r.) , sono disponibili in Italia le partiture delle sue composizioni? La Musica per violino, che ho dedicato a mia moglie Dietlinde, ha avuto la sua prima mondiale a Roma nel 1997. Le partiture non sono ancora in vendita in Italia perché sono pubblicazioni recenti e stiamo ancora parlando di revisioni, ma usciranno presto per la mia casa editrice, la Schott. Perché le sue composizioni hanno titoli così semplici, come Musica per violoncello e orchestra o Movimento sinfonico? Non sopporto i compositori contemporanei che scelgono titoli pretenziosi. Io cerco di usare termini più astratti possibile, per far parlare solo la musica, che è la più astratta delle arti. In passato lei ha diretto le colonne sonore dei film Don Giovanni di Joseph Losey e Carmen di Francesco Rosi, due capolavori di grande successo che hanno anche avuto l'approvazione della critica musicale “colta”, notoriamente piuttosto snob per questo tipo di operazioni divulgative. Generalmente i puristi diffidano del connubio musica classica-film. Lei come la pensa? A me va benissimo, purché venga usato un certo criterio. Rosi conosceva e ha rispettato ogni nota di Carmen. Losey rispettava il genio di Mozart e di Da Ponte. Sua moglie parlava perfettamente l'italiano e gli era sempre accanto, per aiutarlo a comprendere appieno le finezze del libretto. Non c'era mai la volontà di offendere la musica e la sensibilità di coloro che la amano. Invece a certi registi... non gliene frega (sic) proprio niente! Lei ha anche diretto l'Otello cinematografico con Domingo e la Ricciarelli per la regia di Zeffirelli, che notoriamente praticò tagli controversi alla partitura, per esempio saltando la «Canzone del salice». Ricorda? Ricordo... molto bene. No comment. Ma sono orgoglioso del disco con gli stessi interpreti che uscì in occasione del film. I suoi prossimi progetti? Oltre al brano sinfonico commissionatomi dalla Filarmonica di Vienna, dopo l’estate sarò in tournée in Sud-America e farò un galà alla Carnegie Hall. Di recente mi interessa incidere della musica francese, poi la Sinfonia di Salmi di Stravinski e anche l'Histoire du Soldat, dove suono la parte del violino solista. E continuerò a dirigere l'orchestra della Radio Bavarese, almeno fino al 2002, quando scade il mio contratto. Le interesserebbe assumere nuovi incarichi in importanti orchestre sinfoniche? Da quasi quarant'anni mi impegno regolarmente in sfide non solo musicali, ma amministrative, spesso in situazioni complesse, e sono un po' stanco. Forse darò più spazio alla composizione. Sto scrivendo un'opera; non le posso dire il titolo o il nome del teatro della “prima”, ma posso dirle che avverrà nel 2003. Capisce che è un impegno notevole. Certo non abbandonerò mai la direzione, perché amo l'orchestra, le ho dedicato quarant'anni della mia vita. L'anno prossimo, nel Duemila, compirò settant'anni. Ci sono in programma festeggiamenti, “Maazel at Seventy”, e sarò ospitato, con la mia musica e i miei amici a Berlino, Vienna, Monaco di Baviera, Parigi, Chicago, al Concertgebouw di Amsterdam e in Australia. In Italia non sono stato invitato. Peccato, perché amo l'Italia e vi ho lavorato molto. Forse aspettano che compia ottant'anni. Qual è la sua patria? Mi divido fra la Germania e una tenuta negli Stati Uniti, dove cerchiamo di seguire metodi di coltivazione organici e ecologici. Ma come ebreo nato in Francia da genitori di origine russa, cresciuto in America e sposato con una donna tedesca posso solo dire: «The world is my home» (la mia patria è il mondo, n.d.r.).

 

 

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