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Il vecchio liutaio che morì giovane
di Angelo Gilardino
L'improvvisa scomparsa il 29 agosto, a 73 anni, di Carlo Raspagni priva la liuteria chitarristica italiana di una figura di straordinario rilievo. Raspagni fu un vero maestro, che magistralmente costruì e insegnò a costruire chitarre. Come molti altri chitarristi italiani della mia generazione, l'ho avuto come amico per trentacinque anni, e lungo tutto questo periodo ho avuto modo di conoscere e di apprezzare la sua profonda conoscenza dell'arte della liuteria, la sua intelligenza pronta e sensibile, la gentilezza squisita del suo tratto, la sua umanità severa e un po' accorata e, in alcune occasioni, anche la sua lieve, composta ironia. Di lui si può ben dire che a settant'anni è morto giovane: era un vecchio ragazzino saggio e bennato.
La sua arte si era formata con una solida base artigianale. La competenza merceologica di Raspagni nel campo dei legni era inarrivabile: sapeva tutto, anche delle essenze non impiegate nella liuteria, e non sbagliava mai – proprio non poteva – nello scegliere le tavole che gli sarebbero servite per costruire i suoi strumenti. La sua ironia, leggera come un petalo, si mosse una volta (l'avevo stuzzicato, lo ammetto) nei confronti di un altezzoso collega che, nella sua smisurata opinione di sé, pretendeva di scegliere per primo le tavole in arrivo presso l'importatore. «A me va bene di arrivare secondo», commentava Raspagni, «le tavole migliori sono sicuramente ancora là e la scelta è più semplice, perché le peggiori le ha già comperate lui». Su questa sua competenza, Raspagni aveva poi elaborato una tecnica di costruzione di estrema praticità, senza tormenti sperimentali, basata su principi molto chiari e su una razionalità che non escludeva l'intuito, ma che non si lasciava mai andare alla trovata. Non ho mai visto una chitarra di Raspagni costruita male. Ne ho viste e provate, invece, di eccellenti.
Nel laboratorio di Vignate andavano non soltanto chitarristi e liutisti, ma anche tutti coloro che, per le ragioni più inverosimili, desideravano comperarsi una chitarra: il Carlo ne aveva per tutti, di strumenti e di buoni consigli, e questi ultimi li elargiva paternamente, spesso rivolgendosi contro i suoi stessi interessi. Chitarristi italiani che non abbiano, prima o poi, suonato una Raspagni, ve ne sono davvero pochi. Ma era anche il liutaio dei cantautori e dei chitarristi di musica popolare: a volte, il laboratorio si affollava di persone e di personaggi, e Raspagni, che detestava perdere tempo, e che d'altra parte era troppo cortese per mettere qualcuno alla porta, stava sulle spine.
Fu un eccellente didatta: il suo laboratorio-scuola vide passare molti giovani che da quel maestro mite e paziente impararono tutti i segreti della costruzione delle chitarre. Era infallibile nel riconoscere il talento dei chitarristi e, agli studenti che stimava, era in grado di dare consigli preziosi, indicando loro, senza alcun timore, i maestri migliori. Dal modo con cui un chitarrista provava uno strumento, Raspagni si formava un giudizio, non solo sul valore dell'artista, ma anche sul carattere della persona. E credo che non si sia mai ricreduto. Era anche – rara avis tra i liutai – un ascoltatore colto e spregiudicato, che non si tirava mai indietro: una quindicina d'anni fa placò una sorta di sedizione tra i suoi colleghi presenti a un festival di chitarra, i quali volevano rifiutarsi di assistere a un concerto con un programma interamente dedicato agli autori contemporanei. Riuscì a persuaderli e a tenerli buoni per un'ora ad ascoltare Donatoni e Ferneyhough: miracolo. Pochi forse sanno che era anche un collezionista di arte: prediligeva gli astrattisti e sceglieva le opere con un gusto selettivo personalissimo, senza farsi influenzare dalla propaganda e dai nomi. Mi regalò una volta un quadro figurativo, con una natura morta: un gesto affettuoso, ma anche ironico.
Impegnò gran parte della sua bravura nell'accogliere con umiltà le richieste che gli venivano da una committenza raramente in grado di operare scelte consapevoli: gli chiedevano di copiare i galeoni spagnoli, e lui li copiava, magari migliorandoli un po'. Ma da alcuni anni – raggiunto un meritatissimo, pressoché unanime riconoscimento – si era voluto regalare il piacere di costruire alcune chitarre veramente “sue”: Andrea Dieci che, tra i giovani talenti, era il prediletto di Raspagni, gli suggerì di ispirarsi alle chitarre di Hermann Hauser, e Raspagni fu capace, non già di copiare, ma di ricreare quell'aurea proporzione, quel suono delicato e potente, quel timbro insieme limpido e velato. I fortunati acquirenti di quelle due dozzine di strumenti – non ne fece di più – sono oggi i possessori delle migliori chitarre che la liuteria italiana abbia mai saputo creare.
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