Suonare News 0 2004
 

Il lascito culturale di Andrés Segovia
di Filippo Michelangeli

Il titolo di questa conversazione è "Il lascito culturale e musicale di Andrés Segovia". La trattazione del tema si avvale di una testimonianza privilegiata qual è quella di Emilia Segovia, che è stata la consorte del maestro per l'ultimo quarto della sua vita, dal 1962 fino al 1987. Vorrei offrire una breve silloge della vita di Segovia per inquadrare meglio l’argomento. Segovia nacque nel 1893 a Linares e morì a Madrid nel 1987. Si è manifestato come sommo concertista di chitarra per ben 77 anni. Pochi altri strumentisti hanno avuto una parabola così lunga, così costante e così tesa nel mantenere l’efficienza e nel meritare la gloria. Segovia debuttò al Centro Artistico di Granada nel 1910 con un concerto di cui non ci è pervenuto il programma. Per dieci anni svolse la sua attività concertistica in Spagna, senza mai uscire dal proprio Paese. Ma nel 1915 Segovia aveva già dato prova delle sue capacità innovative rispetto a quello che era allora il mondo della chitarra. La chitarra viveva a quell'epoca in una situazione di confino. L'estetica del romanticismo l’aveva sospinta ai margini della vita musicale primaria. Languiva in ambiti salottieri, dove si faceva del romanticismo di riporto. Segovia nutrì l’ambizione di riportare la chitarra in piena luce, nello stato in cui si era trovata a Vienna, Parigi, Londra, nei primi trent’anni dell'Ottocento, quando i virtuosi e i compositori dell'epoca dialogavano alla pari con i più grandi musicisti del loro tempo. Nel 1915 a Barcellona, mentre era ancora uno sconosciuto, Segovia ardì presentarsi con un concerto al Palau de la Musica, per provare che la chitarra era adatta a suonare in ambienti molto grandi perché il suo suono poteva essere percepito nitidamente anche a una certa distanza. Nel fare questo Segovia sfatò un mito, incarnato a quell’epoca niente meno che da Llobet, il quale sosteneva esattamente il contrario, cioè che la chitarra non poteva risuonare in grandi ambienti. Successivamente Segovia manifestò un’altra delle sue intuizioni, forse la più forte: non era vero quello che aveva scritto Berlioz nel Trattato di strumentazione e orchestrazione, dove si affermava che la chitarra non poteva essere trattata da compositori che non sapessero suonarla. Questo dogma aveva relegato le sei corde fuori dall’interesse dei compositori, intimidendoli. Ebbene Segovia incominciò a mandare segnali contrari, dicendo ai compositori: «Non abbiate paura, scrivete e poi ci penserò io a dare un assetto chitarristico ai vostri pezzi». E fu così che ancora prima che Segovia si manifestasse a livelli mondiali, già nel 1919 Moreno-Torroba e Pahissa avevano scritto un pezzo per lui. La terza intuizione che ebbe Segovia fu quella di proporre la chitarra non alle società chitarristiche vagamente amatoriali in cui suonavano i virtuosi di allora, o comunque in ambienti iniziatici, bensì alle società dei concerti, al pubblico che ascoltava i recital di pianoforte e di quartetto d’archi. Per fare questo dovette lottare duramente, perché collocarsi come chitarrista nel circuito impresariale era un’impresa disperata, ma con la sua grande personalità ci riuscì. Nel 1920 Segovia andò per la prima volta all’estero, in Argentina e in Uruguay. Ci ritornò nel 1921. Nell’aprile del 1924 diede il suo primo concerto europeo a Parigi. Erano presenti tutti i grandi nomi della vita musicale francese dell’epoca, inclusi Ravel, Dukas, Roussel e la vedova di Debussy. Quella fu la sua consacrazione definitiva. Da quel momento tutte le società concertistiche più importanti d’Europa incominciarono a programmare concerti di Segovia. Nel 1926 Segovia era stato in Unione Sovietica dove aveva ottenuto un successo incredibile. Nel 1928 debuttò a New York con un concerto che egli stesso, in una lettera a Ponce, definì ancora più importante del concerto parigino del 1924. La sua parabola proseguì con grande vigore fino al 1936, anno dello scoppio della guerra civile spagnola e anno del suo esilio dalla patria: Segovia abbondonò precipitosamente Bercellona con la consorte, la pianista Madriguera, e salendo sul primo battello in partenza dal porto, andò a Genova. Nel 1939, all’inizio della seconda guerra mondiale, Segovia si rifugiò a Montevideo, in Uruguay, e fino al 1943 diede concerti solamente nei paesi latino-americani, perché il mondo impresariale statunitense aveva decretato un boicottaggio a suo carico, motivandolo con presunte prese di posizione filo-franchiste che lui avrebbe manifestato in quell’epoca. Nel 1943 fu riammesso a New York e diede un concerto alla Town Hall. Per disciplinare l’accesso del pubblico a questo recital dovette intervenire la polizia a cavallo. La sua carriera proseguì sempre più gloriosa. Nel 1952 ritornò in Spagna, da dove era assente dal 1936, con un concerto che diede al Teatro Isabel la Catolica a Granada. La sua vita fu contrassegnata nell’ambito privato da una certa instabilità, che ebbe fine quando si sposò nel 1962 con Emilia e andò a vivere a Madrid in una nuova casa, che non abbandonò più fino alla fine dei suoi giorni. Sappiamo che Segovia aveva una biblioteca molto vasta di testi filosofici e letterari. Vostro figlio Carlos Andrés, professore di filosofia, definisce l’arte di Segovia un'apparizione, una ierofania. Non staremo andando da un estremo a un altro? Prima si rincorreva Segovia per le diteggiature e ora si parla di ierofania? Segovia era un appassionato della lettura, poesia, filosofia e arte. Amava circondarsi di pensatori, pittori, artisti e intellettuali che avevano accesso al suo studio a partire dalle otto di sera. Fino a quell'ora c'era il coprifuoco. A Granada trascorre gli anni decisivi dell'adolescenza e la prima giovinezza. In quella città si formò un pensiero filosofico, l’“andalucismo universal”: era una concezione del mondo in cui, vivendo profondamente la tradizione della propria terra, si finiva per acquisire una visione del mondo completa anche senza bisogno di esplorare il pianeta... Segovia era un ragazzo povero, ma aveva un grande ingegno e una grande capacità di apprendere. Quando Segovia non era in tournée studiava sei ore al giorno. Come trascorreva il resto del tempo? Si alzava alle 6 della mattina e si metteva a leggere. Alle 8 faceva colazione. La giornata di studio era formata da quattro periodi di un'ora e mezzo ciascuno intercalati dalla lettura. Era un uomo che dedicava a se stesso il tempo per il pranzo, un riposino di una ventina di minuti e poi sempre cicli di studio di un'ora e mezza. Alla fine della giornata aveva letto tanto quanto aveva studiato. Alla sera arrivavano gli amici che si fermavano fino a notte tarda. Facciamo luce ora sulla figura del didatta. Il mondo è pieno di chitarristi che dicono di aver studiato con Segovia. Sappiamo invece che insegnava poco, ma che era un uomo di grande generosità... A proposito della sua generosità, quando Segovia è mancato sono venuta a conoscenza dell'esistenza di un conto segreto che teneva a New York e degli assegni che erano stati staccati come sovvenzioni a favore di persone bisognose, soprattutto chitarristi. Torniamo alla figura del didatta: come ha concepito nella realtà la sua attività di didatta e come l'ha svolta? Lei è stata allieva del maestro ai tempi della Chigiana... La sua generosità si manifestava anche in forma didattica: dediderava trasmettere la sua conoscenza ai suoi alunni. Affermava con forza che l'allievo deve imparare senza diventare un parassita del maestro, un seguace ottuso. Alcuni hanno compreso questa lezione, altri no. Adesso parliamo del Segovia corrispondente che scrive e riceve lettere. Di questi carteggi molto importante è quello intrattenuto con Ponce, ma anche quello con il filosofo-scrittore spagnolo Salvador de Madariaga. Segovia aveva ricevuto un'istruzione di base limitata. Eppure scrive con uno stile che farebbe invidia a molti scrittori di professione... Madariaga sostiene che in queste lettere ci sia uno scrittore mancato. Mancato perché non ha scritto saggi o romanzi. Ma nelle sue lettere c'è anche il commentatore della vita sociale, politica e di costume. Segovia ha rimpianto il fatto di non avere potuto compiere una carriera accademica come filosofo, ma il figlio Carlos Andrés lo è diventato.

 

 

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