Suonare News 0 2004 Sei corde
 

Il cieco di Alicante che vedeva l’azzurro
di Angelo Gilardino

Scorrere le voci della Guida al repertorio moderno e contemporaneo della chitarra di Vincenzo Pocci, edizione 2004 (in un cd rom contenente anche l’esecuzione di 53 pezzi da parte dell’ispirato e generoso Piero Bonaguri), mi fa trasalire cento volte: quanti autori ho avvicinato con interesse e con il proposito di ritornare più attentamente sulla loro opera, e poi ho lasciato scivolare sul fondo della memoria? A una di queste dimenticanze voglio porre rimedio oggi, ricordando la musica per e con chitarra di Rafael Rodríguez Albert, compositore spagnolo nato ad Alicante nel 1902 e morto a Madrid nel 1979. Come il suo quasi conterraneo e quasi omonimo Rodrigo, anche Rodríguez Albert era cieco fin dall’infanzia. A differenza di Rodrigo, però, non fu mai, non è e non diverrà famoso. Il perché non è da ricercare nella qualità della sua musica, che non ha nulla da invidiare a quella del celebre collega, ma alla natura intrinseca della sua arte. Rodríguez Albert fu essenzialmente un compositore di musica da camera, un piccolo maestro dell’intimismo, e le sue composizioni non sono brillanti, seducenti, impressionanti, sentimentali, ma meditative, profonde e pervase da un sentimento misto di melanconia e di dolcezza, che fa venire in mente illustri precedenti, non ispanici ma francesi, direi soprattutto Gabriel Fauré. Osserva il critico madrileno Enrique Franco – e non si può non essere d’accordo – che proprio la musica di un cieco qual era Rodríguez Albert capta le luci azzurre, quasi bianche, della natia Alicante. Il compositore non fu ignoto in Spagna, dove gli fu conferito nel 1952 il Premio Nacional de Música, cioè il massimo riconoscimento che lo Stato concede a un musicista. L’opera che valse a Rodríguez Albert il premio fu il Cuarteto en re mayor para violin, viola, violoncelo y guitarra. Narciso Yepes s’incaricò della prima esecuzione, poi il quartetto scomparve. Ho avuto la buona sorte di leggerne la partitura e di ascoltarne una decentissima esecuzione da parte del compianto José Luis Lopategui con il Quartetto Moyzes. I quattro tempi sono scritti con mano maestra, e il problema dell’equilibrio, sia dialettico che sonoro, della chitarra e degli archi, è stato risolto con autorità: la chitarra alterna funzioni di sostegno ritmico-armonico a momenti di protagonismo in cui espande il proprio canto liberamente, in uno stile vocale-recitativo sobrio ed efficace, di un’espressività sempre piena e mai ridondante o esibizionistica. Quanto ai caratteri, il quartetto ne manifesta fondamentalmente uno solo, quello elegiaco, che si dispiega apertamente nel secondo movimento (Adagio sostenuto), mentre nelle sezioni ritmiche – ad esempio, nel primo tema del primo movimento (Allegro assai), in tempo di zortzico – appare sullo sfondo, oltre lo scalpiccio dei ritmi danzanti, sottraendoli al rischio del popolarismo. Il suono della chitarra, nell’ambiente quartettistico creato dal compositore alicantino, respira aria di casa come in ben poche altre composizioni da camera, e questo lavoro, dalla prima all’ultima battuta, celebra, della chitarra, l’anima più autentica e profonda. Se non sono diventati famosi i quartetti con pianoforte di Fauré, non vedo come, in un’epoca dominata dall’apparenza e dal sensazionalismo, potrebbe diventarlo questo brano di Rodríguez Albert: non credo proprio che potrà mai figurare in cima a qualche classifica di popolarità, specialmente tra chitarristi, e devo però aggiungere che la sua emarginazione in un certo senso mi rassicura. Nel cd in cui lo ha proposto, Lopategui lo ha affiancato al Quintetto per chitarra e archi di Castelnuovo-Tedesco: posso dire che stanno benissimo insieme, senza suggerire inutili paragoni? Oltre al quartetto, Rodríguez Albert scrisse anche tre pezzi per chitarra sola. Il primo risale al 1935: intitolato Introducción, recitado y marcha, sembra incastonarsi perfettamente in quel clima musicale liberatorio, tutt’altro che provinciale, che fu proprio della generazione del ’27, e che poi venne soffocato dalla guerra civile. Del 1962 è la Sonatina en tres duales, di concezione seriale, che vinse il concorso di composizione chitarristica di Liegi nello stesso anno, e che fu pubblicata soltanto nel 1976, precipitando poi nell’oblio. Questo è il lavoro che mi piace meno, anche se la sua costruzione è impeccabile. Il compositore tornò al natio habitat tonale-modale con le Cinco piezas antiguas (Homenaje a Ravel) scritte nel 1967 e pubblicate postume da Opera Tres a cura di Eugenio Tobalina: non sono certo che Ravel avrebbe apprezzato il Bolero en Sevilla, ma sulla Canción del triste juglar mi sentirei di scommettere. Sarebbe piaciuta anche a Segovia, che però non la vide mai. Le opere valide che trovano gli interpreti giusti nel momento propizio sono pochissime.

 

 

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