Suonare news 0 2004 Sei corde
 

Quella Sonata in Mi dedicata al Maestro
di Angelo Gilardino

Quando i compositori, i pianisti, i direttori d’orchestra andavano ai concerti di Segovia, negli anni Venti, Trenta e oltre, nei loro commenti si manifestava sempre la sorpresa: non solo avevano ascoltato un concertista speciale, ma avevano anche avuto la rivelazione di uno strumento che ignoravano. La chitarra esisteva da secoli, e aveva sempre accompagnato la storia della musica ma, di tanto in tanto, si “rivelava”. Segno che, periodicamente, scompariva nel buio. Di questo suo giocare a nascondino con la vita musicale beneficiarono compositori che, se avessero conosciuto lo strumento sui banchi del conservatorio, durante la loro formazione, probabilmente non se ne sarebbero mai entusiasmati: la rivelazione a volte fa più effetto della cosa rivelata. Tra i compositori italiani che ricevettero da Segovia la rivelazione della chitarra, soltanto Castelnuovo-Tedesco vide le sue opere imporsi nel repertorio segoviano. Altri, non meno meritevoli, scrissero musica che Segovia non suonò e che nessuno fu capace di riscattare dal silenzio. Tocca a noi, dopo mezzo secolo o più tornare su quelle pagine e guardarle per quello che sono, indipendentemente dalle loro sfortune. Il fatto che i chitarristi non siano più degli autodidatti istintivi, ma siano divenuti musicisti istruiti e persino – ora – addottorati, si manifesterà pure in una qualche capacità di comprendere i valori delle composizioni messe sul leggio, all’atto della semplice lettura e senza bisogno di essere imbeccati dall’alto. E allora, leggiamola, questa musica! Una lettera della fine del 1957, indirizzata a Segovia, che avrebbe dato la sera stessa un concerto a Bologna, accompagnava il dono di una splendida composizione, una Sonata in quattro movimenti per chitarra, che l’allora direttore del conservatorio “G.B. Martini” inviava al grande chitarrista, con la dichiarata aspirazione ad ascoltarla presto nei concerti del medesimo. Ettore Desderi era un eccelso contrappuntista e un maestro della forma musicale e, preso dall’arte di Segovia, gli aveva – tre anni prima – fatto leggere un suo brano per chitarra: «Benissimo» gli aveva detto all’incirca il maestro, «lo sviluppi, ci costruisca attorno una Sonata e poi me la mandi. La sua musica mi piace e la suonerò». Ed ecco Desderi lavorare come un’ape, fino a mettere in piedi una delle più forti e articolate composizioni del Novecento chitarristico. Nella lettera, Desderi scrive a Segovia: «EccoLe la nostra Sonata». Ciò significa che tra di loro era stato convenuto qualcosa: una promessa di Desderi fatta in seguito a un desiderio espresso da Segovia, suppongo, altrimenti il compositore avrebbe scritto “la mia” Sonata, non “la nostra”. Ma Segovia non disse più nulla. Vent’anni dopo – il compositore era scomparso da poco – trovai l’ultimo tempo della composizione manoscritta negli archivi delle Edizioni musicali Bèrben e lo feci pubblicare con il titolo Toccata e Fuga. Si capiva benissimo che era parte di una composizione più vasta, ma i manoscritti degli altri tempi non c’erano, e il pezzo era in sé compiuto, quindi lo diedi alle stampe. L’ho ascoltato da allora ben poche volte – mi ha fatto piacere trovarlo recentemente in un cd del valido chitarrista di Isernia, Marcello Rivelli – sempre domandandomi perché una fuga degna di Max Reger o di César Franck riscuotesse tra chitarristi minor attenzione di alcuni pezzettacci da trivio. La risposta è un’altra domanda: i chitarristi studiano in conservatorio o in birreria? L’intera Sonata in Mi, in quattro tempi, è ora riemersa dai flutti delle carte segoviane, a Linares. Pubblicarla è il minimo che potevo fare – sta infatti per uscire nella collezione The Andrés Segovia Archive per le Edizioni musicali Bèrben – ma credo che ciò non basti a risarcire la memoria dell’austero, religioso maestro Desderi: bisognerà escogitare qualche evento che proietti su un capolavoro chitarristico la luce di un giusto, se pur tardivo, riconoscimento. Non ritengo che il farla programmare quale pezzo d’obbligo in un concorso sia il mezzo più efficace per richiamare su di essa l’attenzione degli interpreti: i pezzi studiati per imposizione difficilmente si prendono a ben volere. Mi piace piuttosto la prospettiva di uno studio interpretativo – un saggio, una monografia – che metta in rilievo le caratteristiche di questa composizione, in cui un pensiero musicale complesso, elaborato, si manifesta in una forma perfetta, controllata da una mano maestra in tutti i suoi particolari, e nello stesso tempo permette alla chitarra di effondere, in piena libertà, il mistero inafferrabile del suo suono. Perché, alla fine, la doppia partita – pensare un’architettura musicale elaborata che abbia anche una vita sonora piena e splendente – l’hanno giocata moltissimi, ma ben pochi l’hanno vinta.

 

 

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