Suonare News 0 1999
 

Nostalgia del passato
di Dimitri Gagliano

Stanislav Bunin, russo, 32 anni, vincitore a 17 del Concorso “M. Long - J. Thibaud” di Parigi e a 19 dello “Chopin” di Varsavia, è indubbiamente uno dei casi più singolari del panorama concertistico degli ultimi anni. Figlio di pianisti, nipote del massimo didatta del secolo, Heinrich Neuhaus, non ha scelto la via della frenetica carriera concertistica attorno al mondo. Nel 1988 lascia Mosca e, dopo una breve permanenza in Germania, si stabilisce in Giappone. La parentesi europea gli frutta qualche tournée e alcuni dischi per la Deutsche Grammophon (Schumann, Chopin e un bellissimo Debussy), da tempo purtroppo fuori catalogo. Negli ultimi anni ha concentrato le sue molteplici attività in Giappone, dove è amatissimo. Concerti, insegnamento, fondazione della “Stanislav Bunin Enterprise”, piccola etichetta che si propone “di immettere sul mercato poche produzioni, ma di reale valore artistico” e, infine, un impegnativo progetto anche in campo sociale: l'istituzione a Tokyo di una grande scuola di musica per bambini orfani. Da quest'anno ha ripreso ad esibirsi, acclamatissimo, in Europa e negli Stati Uniti. Genitori pianisti, un nonno che si chiama Heinrich Neu-haus. Non poteva esserci che il pianoforte nel suo futuro... In realtà nessuno, in famiglia, mi spinse a studiare il pianoforte. Fu un caso, o il destino forse: ricordo che durante una delle lunghe tournée di mia madre, avevo cinque o sei anni, ero così annoiato che cominciai a girare attorno al vecchio Bechstein che era in casa, l'unico giocattolo che non dovevo toccare. Quando al ritorno mia madre, casualmente, sentì un frammento di una melodia di Mozart che suonavo ad orecchio, cominciò a darmi lezioni. In seguito, visti i buoni risultati, abbandonò anzitempo il concertismo per continuare a seguire i miei studi. Devo molto a mia madre e ancora oggi è, al tempo stesso, la mia migliore insegnante e critica. E suo padre? Non aveva nessuna voglia di fare l'insegnante. Del resto era anche molto impegnato, dava moltissimi concerti ed era quindi meno presente. Lei non ha potuto conoscere suo nonno, vera figura chiave della didattica pianistica nel nostro secolo. Come è venuto in contatto con lo spirito ed i princìpi della sua scuola? Ovviamente tramite mia madre che, dapprima sua allieva, venne poi accolta in famiglia. Quando fui in grado di capire qualcosa in più sulla musica, mi introdusse alla conoscenza del suo pensiero. Neuhaus è stato prima di tutto una personalità di grande forza intellettuale e credo che, in questo senso, il suo maggior merito sia stato quello di essere riuscito a trasferire nella cultura musicale russa le suggestioni ed i valori più duraturi della tradizione romantica europea. Da un punto di vista strettamente pianistico, la sua scuola si distingueva per il valore che riponeva nella componente spirituale di un'interpretazione, a differenza, per esempio, di quella di San Pietroburgo, più orientata verso una formazione di impronta prevalentemente virtuosistica. Un'altra caratteristica di Neuhaus era quella di insistere sulla necessità, per un musicista, di avvicinarsi anche ad altre forme d'arte, in particolare la pittura e la letteratura. Mia madre ha cercato, negli anni, di farmi comprendere tutti gli aspetti della sua poetica e spero che questo, in qualche misura, le sia riuscito. C'è stato un altro pianista o musicista che, durante il periodo degli studi al Conservatorio di Mosca, ha avuto un'influenza determinante sul suo sviluppo musicale? Sì, Walter Gieseking, interprete sicuramente tra i maggiori del secolo. Per me ha rappresentato un autentico modello di perfezione. In Gieseking ho sempre ammirato la purezza del tocco, l'incredibile ricchezza timbrica, il rigore analitico in ogni brano affrontato. In Debussy, per esempio, o nel Brahms delle ultime raccolte pianistiche, ha lasciato interpretazioni che ancora oggi costituiscono punti di riferimento assoluti. Ma non ho ascoltato solo pianisti; sono sempre stato affascinato dai cantanti, Elisabeth Schwarzkopf e Dietrich Fischer-Dieskau su tutti. Per quel che riguarda il respiro, il fraseggio, l'intensità espressiva, ho tratto soprattutto da loro, più che dai pianisti, indicazioni fondamentali. Nel 1988, tre anni dopo l'affermazione allo “Chopin” di Varsavia, lei ha lasciato improvvisamente, e definitivamente pare, la Russia. Come mai questa scelta? Per due motivi: il primo è che non sono mai stato il classico pianista per il pubblico russo: a parte Rachmaninov non suonavo, e non suono tuttora, i compositori russi. Il secondo è che ci furono spiacevoli attriti all'interno del conservatorio, si voleva indirizzare il mio sviluppo in una direzione che non condividevo affatto. Credo che non fossero estranee perfino alcune pressioni di natura politica. Ma questi sono discorsi in fondo poco interessanti. Piuttosto, la cosa più curiosa è che esattamente cento anni prima della mia partenza dalla Russia per la Germania, mio nonno, ancora in fasce, compiva con la famiglia il percorso inverso. Questa coincidenza mi ha sempre fatto riflettere, a volte penso che la decisione di lasciare la Russia altro non sia stato che una sorta di ritorno alle origini. Nel senso che lei sentiva forse di non far parte di quel paese e di quella cultura? Le figure cui ancora oggi mi sento legato sono quelle dei musicisti, dei poeti, dei pittori che hanno accompagnato la mia adolescenza. Ma per quanto riguarda l'identificazione con questo paese da un punto di vista sociale, con un certo modo di intendere la vita, l'arte, la politica, in questo senso sì, mi sento estraneo. Ed è forse anche per questo che, come ha affermato prima, non affronta il repertorio russo? Forse indirettamente. Ma, più semplicemente, a parte Rachmaninov, che ho sempre suonato, considero la letteratura pianistica russa una letteratura minore. Ciaikovski è stato sicuramente un grande sinfonista, ma la sua musica per pianoforte non è certo all'altezza dei lavori per orchestra, o di quelli cameristici. E Scriabin ...? Scriabin merita un discorso a parte. Tra l'altro, sa che era il compositore preferito di mio padre? Lo ha sempre suonato e anche molto bene, ci sono ancora numerose sue incisioni. Scriabin è però un compositore per pianisti che davvero lo hanno compreso. La sua musica è un terreno arduo, molto raffinata ed esigente sotto il profilo tecnico-strumentale, complicatissima per i problemi di natura puramente intellettuale che pone all'interprete. Lei è un grande cultore di Bach. Negli ultimi trenta-quarant'anni l'opera bachiana è stata al centro di un appassionato dibattito culturale che ha portato a diversi esiti interpretativi, non di rado perfino opposti. Dal Bach quasi bruckneriano di Karajan, a quello considerato ancora romantico di Karl Richter, a quello filologico, o ritenuto tale, eseguito da ensembles di strumenti originali, e così via. Qual è la sua visione di Bach? In termini generali, per quanto riguarda Bach, l'esistenza di più direzioni stilistiche è connaturata al carattere stesso di universalità della sua opera. Lei ha ricordato Karl Richter: Richter è stato un geniale interprete di Bach, con le Cantate ha lasciato interpretazioni davvero memorabili. I suoi Brandeburghesi, d'altro canto, sono molto diversi tanto da quelli così levigati di Karajan, quanto da quelli filologici di Koopman, ma in ognuna di queste interpretazioni troviamo qualcosa di vero intorno allo spirito della musica di Bach. E riguardo l'impiego del pianoforte nelle opere per tastiera? Io consiglio ai miei allievi giapponesi, cresciuti su strumenti moderni, di accostarsi al clavicembalo e concentrarsi seriamente sul fraseggio; è questa, senza dubbio, la via migliore per avvicinarsi a Bach. Tuttavia, una volta fatte queste esperienze, bisogna saperle poi trasferire anche sullo strumento moderno, poiché non sempre il clavicembalo si rivela il mezzo più adeguato. Le Suites Inglesi anche se suonate da un grande musicista come Ton Koopman, sul clavicembalo non rivelano tutta la loro espressività, la loro forza, il loro calore. Insomma, se Bach sul clavicembalo teoricamente è la cosa più giusta, suonarlo su uno Steinway, non è sicuramente sbagliato. Le sue predilezioni in fatto di repertorio, a parte Bach e qualche rara incursione in Debussy, si rivolgono al repertorio romantico, Chopin, Schumann, Brahms ... E Beethoven! Nonostante i musicologi non accettino una simile definizione. Ma per me Beethoven è il primo vero romantico. Quando suono il Terzo Concerto o l'Appassionata, ho davanti a me anche le Fantasie di Schubert e Schumann. È vero, il repertorio cosiddetto romantico è al centro dei miei interessi: è qui, a mio parere, che si trovano le pagine più alte della letteratura pianistica. In questi mesi è stato in tournée con il Terzo Concerto di Beethoven. Ha dei modelli di riferimento? Potrà sembrare forse un po' strano, ma rimasi molto impressionato dalle incisioni beethoveniane del giovane Glenn Gould. Soprattutto il Terzo Concerto con Bernstein è, per profondità di pensiero, intensità espressiva ed eleganza del fraseggio, l'esecuzione più trascinante che abbia mai sentito. Glenn Gould era un meraviglioso genio romantico, anzi, a mio avviso è stato l'interprete romantico per eccellenza di questo secolo. Ascolta spesso i suoi colleghi? Certo. Tuttavia i miei ideali musicali li ritrovo pienamente realizzati nei maestri del passato. In Russia, per esempio, oltre Richter, Gilels, Sofronitsky, c'era Grigory Ginsburg, un pianista che solo oggi si comincia a conoscere: le sue esecuzioni di Liszt sono tra le più profonde e coerenti che io conosca. In Germania c'erano Backhaus, Kempff, Gieseking. Anche se solo attraverso i dischi, la lezione di questi grandi continua a vivere e a testimoniare quanta autenticità c'era nella loro arte. Oggi non è cosa facile ritrovare quell'autenticità, ho l'impressione che alcuni valori fondamentali siano andati definitivamente perduti. Questo anche in campo discografico, si produce sempre più su modello americano, e cioè troppo e male. A proposito di incisioni, in Europa è impossibile trovare i suoi dischi. Sono ormai più di dieci anni che le mie attività concertistiche, didattiche e discografiche si svolgono quasi esclusivamente in Giappone e non mi sono mai potuto occupare della distribuzione dei miei dischi. Ora però qualche cambiamento ci sarà, da un anno ho fondato una piccola casa discografica a Tokyo e alcune delle mie più recenti incisioni, quattro CD dedicati a Chopin, a partire dal 1999 saranno disponibili anche sul mercato europeo. C'è una ragione particolare per cui lei ha scelto di vivere in Giappone? Innanzitutto è un paese meraviglioso, sotto molti profili; in secondo luogo, le attività musicali e culturali in genere sono estremamente vitali: i giovani sono pieni di entusiasmo e studiano con coscienza; la domanda di concerti è elevatissima, pensi che ogni settimana a Tokyo suonano musicisti dei cinque continenti. È realmente uno dei centri musicali più importanti del mondo. Certo, rimane ancora molto da fare, non dobbiamo dimenticare che i primi contatti con la musica europea risalgono a non più di un'ottantina d'anni; tuttavia, la sensibilità dei giapponesi per i suoni è molto raffinata, e la spontaneità con cui si avvicinano alla nostra musica è stupefacente, probabilmente superiore alla nostra. Oltre l'attività concertistica e didattica, ci sono altre occupazioni cui lei dedica il suo tempo? Sì, anche se sono sempre legate all'ambito musicale. Attualmente sono impegnato in un progetto che mi sta molto a cuore, quello di dar vita, a Tokyo, a un'associazione musicale per orfani. Il mio sogno è quello di dare a questi bambini l'opportunità di ricevere una buona educazione musicale, che altrimenti non potrebbero avere. Per questo dò molti concerti di beneficenza. Conto di riuscire a realizzare questo progetto in tre anni. Al momento, questa è la mia occupazione mentale maggiore. Manca, per concludere, un ricordo di Svjatoslav Richter, cui lei ha dedicato, in Giappone, vari articoli commemorativi. Che cosa ha ammirato di più in lui? Di Svjatoslav Richter ho amato infiniti aspetti: dalla maestria strumentale che ha avuto pochi eguali, al fatto che fino all'ultimo si è dedicato anche ad opere che saranno rivalutate forse solo nel prossimo secolo, la sua immensa cultura, che gli faceva amare l'arte in tutte le sue manifestazioni e, nello stesso tempo, lo rendeva critico acuto dei falsi miti della modernità, e molte altre cose ancora. Ma per me, la cosa davvero più importante, è che per mezzo di un modesto pianoforte è riuscito a raccontare il dolore e i sentimenti di questo mondo. BOX: Il nipote di Neuhaus È nato a Mosca in una prestigiosa famiglia di musicisti, fra i quali si contano Heinrich Neuhaus, fondatore della grande scuola pianistica russa, e il compositore polacco Karol Szymanowski. Dal 1973 al 1988 ha studiato a Mosca prima alla Scuola Centrale di Musica e poi al Conservatorio. A 17 anni, nel 1983, ha vinto a Parigi il Concorso Long-Thibaud. Due anni dopo, diventato solista della Filarmonica di Mosca, ha vinto a Varsavia il primo premio e la medaglia d’oro del Concorso “Chopin”. A 28 anni Stanislav Bunin, si è affermato come uno dei più brillanti pianisti della sua generazione: ha suonato in tutte le più importanti città europee: Vienna, Salisburgo, Monaco di Baviera, Milano, Parigi, Roma, Stoccolma, Amsterdam, Londra e negli Stati Uniti a New York, Boston e Miami. Le ultime stagioni lo hanno visto raccogliere successi al Festival di Salisburgo, al Barbican Center di Londra, al Maggio Musicale Fiorentino, a Parigi, al Teatro alla Scala dove dal 1992 suona tutti gli anni, e in Giappone. A partire dal 1986 Bunin ha inciso numerosi dischi per Deutsche Grammophon, Sony, Rca e Toshiba Emi. Il suo repertorio discografico comprende opere di Schumann, Chopin, Mozart, Bach, Haydn, Debussy e Poulenc. Numerose incisioni hanno ricevuto prestigiosi riconoscimenti: il disco Chopin e quello Debussy hanno vinto nel 1987 e nel 1988 il Grand Prix du Disque in Giappone; il disco Bach e quello Mozart con i Solisti Veneti hanno vinto ognuno un Disco d’oro in Giappone.

 

 

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